
Francesca, Rivelatrice di Comunità
23 Novembre 2020
Facilitazione sì, ma con quale tecnica?
Le tecniche tra le quali scegliere, da enumerare al proprio committente quando si viene chiamati per organizzare un evento partecipativo, sono potenzialmente numerose.
La scelta, che potrebbe sembrare scontata, perché “una tecnica vale l’altra”, è invece un momento cruciale; qui un facilitatore potrebbe anche arrivare a giocarsi la faccia e un committente potrebbe subito cogliere la “debole” etica del professionista che ha ingaggiato.
Ecco perché questo articolo andrà bene per te, che sei un collega facilitatore e anche per te, che stai per scommettere sulla facilitazione e la partecipazione chiamando un professionista per il tuo evento o il percorso che vorresti intraprendere.
Enti di vario tipo e grado millantano tra le proprie scelte programmatiche e operative le più disparate tecniche partecipative; sempre più ricercate, specie dalle Pubbliche Amministrazioni, come emblema di buona governance (qui trovi vari esempi).
Questo, spesso, provoca che il cittadino/utente non si renda conto di stare maneggiando pratiche a volte poco adatte al contesto e certamente non le uniche a disposizione.
Il lavoro del buon facilitatore infatti, non consiste tanto nel saper proporre, per ogni contesto, la medesima soluzione, ma nell’analizzare attentamente la situazione, le richieste della eventuale committenza, per poi scegliere lo strumento più adatto alle esigenze finali, alla sensibilità del tipo di partecipanti da coinvolgere; in questa operazione – e annesso ragionamento teorico – probabilmente è insito molto del compito delle pratiche partecipative.
Sarà sempre necessario ponderare una decisione strategica, considerando i seguenti fattori:
- la tipologia del soggetto da consultare;
- onerosità della realizzazione, specie in termini di tempo e costi;
- attendibilità/ validità delle informazioni attese;
- utilità/ esaustività dei risultati.
Sulla base di una prima operazione di esclusione, bisognerà decidere se utilizzare uno o più strumenti, propri di più tecniche; quali escludere e quali adottare.
Come ogni processo, anche un evento/ percorso partecipativo – è bene sottolinearlo – potrà evolversi, cambiare anche in corso d’opera; laddove si ritenga di impiegare – o non utilizzare più – alcuni strumenti.
Al collega facilitatore – e per prima, a me stessa – scrivo che non è affatto semplice rinunciare alla padronanza che avremmo se utilizzassimo sempre la tecnica alla quale siamo più affezionati; esistono però altri modi per fare notare di essere dei veri esperti sulla nostra “tecnica naturale”, come scrivere al riguardo su un blog o una pagina social, contribuendo a produrre materiale tematico.
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Al futuro committente di un evento/ percorso partecipativo, chiedo di credere nel professionista di cui si avvale, specie se questo vi dovesse proporre la scelta della tecnica giusta solo dopo una attenta analisi.
La paura di un committente, che vuole e deve raggiungere degli obiettivi è più che legittima: siamo tutti, spesso, concentrati sul “risultato” più tangibile; ma quanto cambia in positivo la prospettiva, quando si riesce ad arrivare a vedere oltre, ritrovare la visione generale, il motivo profondo per cui state scegliendo la partecipazione?
La chiarificazione dello scopo profondo che porta un committente a desiderare per la sua realtà un evento/ percorso partecipativo, è un altro aspetto fondamentale per la buona riuscita dello stesso, ma di questo scriverò una prossima volta.
Se la tecnica di facilitazione fosse una “zona di comfort”, quale sarebbe la mia? Probabilmente il World Café, la tecnica al servizio della quale mi sono trovata più spesso e con la quale, altrettanto spesso, vengo “identificata” da chi si rivolge a me per consigli e collaborazioni. Personalmente trovo questa identificazione pericolosa.
Per me sarebbe forse più facile, ogni volta, impiegare una tecnica con la quale – probabilmente è vero – sento oramai una certa familiarità ma, se non valutassimo insieme tutte le possibilità, non starei rendendo un buon servizio né a me stessa, né, soprattutto, a chi si rivolge a me e, su di me, conta.
Ogni evento/ percorso è diverso dall’altro, anche quando si usano sempre le stesse tecniche, perché diverse sono premesse e risultati – ed è quindi vero che il facilitatore si misura sempre, alla fine, con qualcosa di nuovo – ma ogni territorio e protagonista che si mette in gioco merita risposte quanto più possibile “personalizzate”.
Il rischio di una partecipazione apparente e di uno sforzo solo simbolico – in gergo “tokenismo” – è reale e molto più frequente di quanto si possa pensare; si potrebbe azzardare che sia quasi la prassi.
Nel mio piccolo, cerco di parlare di queste questioni più che posso e, ogni volta che approccio a una nuova richiesta e una nuova realtà, le mie premesse sono sempre queste.
A volte non basta; certi committenti desiderano solo perpetuare la loro visione e la loro idea; capisco questo desiderio e le loro esigenze – non è facile cedere sugli aspetti personalistici quando si è promotori di qualcosa – ma dobbiamo cercare di lavorare più e come possiamo su quelli che sono o possono trasformarsi poi in problemi (a evento/ percorso in corso o “ultimato”).
Dobbiamo cercare di agire sempre considerando la complessità, la stratificazione delle cose e le conseguenze.
Se sei un facilitatore o una facilitatrice, ti sei mai trovato/a in situazioni come quelle descritte qui sopra? Come le hai trasformate?
Se sei un committente, come la pensi? Cosa rimane, riecheggia dentro di te, oggi? Avevi in mente di portare avanti, nel tuo territorio, un evento/ percorso partecipativo e avevi già pensato di usare “proprio quella tecnica vista nell’ultimo evento al quale eri stato invitato?” Pensi di riconsiderare la possibilità di aprirti a un servizio nel quale la tecnica- strumento- approccio vengano scelti solo dopo una attenta analisi?